Qualche mese fa uno sconosciuto manager, tale Sergio Marchionne, conquistò le prime pagine dei quotidiani perché aveva osato rifiutare gli incentivi proposti dal Governo italiano. L'allora Ministro dello Sviluppo Economico, Claudio Scajola, aveva poi inscenato un patetico teatrino per fare finta che fosse il Governo a decidere di salvaguardare altri settori industriali, ma basta leggersi le cronache della carta stampata (chiaramente escludendo i quotidiani di carta straccia) per comprendere che Marchionne voleva recidere il cordone ombelicale per rendere realmente autonoma la Fiat.
Il rapporto Fiat - Stato è stato, ed è, mitizzato al punto tale che qualunque idiota che incontri per strada si sente in dovere di sparare la sua verità. La voce del popolo racconta che la Fiat ha preso i soldi e non ha mai restituito nulla. Una tale visione miope e superficiale può fare presa solo in una nazione dove prevale l'invidia sociale e nessuno ha il coraggio di approfondire la conoscenza. Il patto Fiat - Stato è stato di reciproca convenienza. Lo Stato Italiano cercava di salvaguardare l'occupazione e la Fiat, per anni, ha bloccato quelle ristrutturazioni interne necessarie per guadagnare competitività. A conti fatti il rapporto Stato - Fiat ha creato un equilibrio contrario ad ogni logica di mercato, che tra l'altro ha pesato sulla competitività del nostro paese e ha prodotto dei benefici solo nel breve periodo.
Questo Stato che protegge i grandi gruppi è una costante della storia italiana, e fanno sorridere le grida "liberiste" di Tremonti. Che dire della multa per Rete4 che paghiamo noi contribuenti? O dell'operazione finanziaria costruita per salvare la sacra italianità di Alitalia? Non sono anche quelli aiutini del pubblico per il privato?
La cronaca di quest'ultima settimana si è concentrata sul contratto proposto da Marchionne alle rappresentanze sindacali di Pomigliano. Prima di esprimere un giudizio sui termini dell'accordo credo che sia doveroso approfondire il contesto in cui ci muoviamo. Marchionne non sta facendo le bizze perché è un "padrone egoista", ma sta solo mettendo in luce una triste verità con cui dovremo fare presto i conti. Per anni ci siamo illusi pensando che la manifattura italiana potesse sopravvivere perché, nonostante il costo del lavoro fosse più alto rispetto ai paesi emergenti, offriva comunque un livello di qualità superiore. Questa convinzione si sta rilevando una fesseria, e anno dopo anno si sta sempre più riducendo il gap tra la qualità dei prodotti esteri e i nostri. Detto questo è ovvio che la manifattura italiana potrà avere un futuro solo se entreremo in competizione con le condizioni salariali offerte dai paesi emergenti. Ma questa situazione di contesto conduce ad un impoverimento della classe operaia italiana, che si vede costretta a rinunciare alle conquiste economiche e sociali, o almeno deve ridimensionare le sue pretese.
Il vero verdetto che emerge da Pomigliano non sta nel tentativo di estendere questo modello ad altre realtà produttive, come immagina l'ex socialista Sacconi (Ministro del Welfare). Si tratta invece di immaginare cosa dovranno fare gli italiani nel futuro. Vogliamo concentrarci su una manifattura che propone condizioni di mercato inaccettabili? Vogliamo mantenere la tradizione della fabbrica che dà lavoro a nonni, padri e figli, ma che per sopravvivere offre condizioni peggiori ai figli rispetto a quelle che sopportavano i padri? Se la manifattura non ha futuro dobbiamo avere chiaro in testa un concetto: o investiamo nell'istruzione e nella ricerca per formare il futuro del terziario avanzato (e perché no magari anche del secondario), o dovremo rassegnarci ad una realtà in cui crescerà lo squilibrio sociale interno al paese. O ci incamminiamo verso il futuro, o blocchiamo la scala sociale e cristallizziamo la realtà in cui viviamo. Forse basterebbe avere un Ministro dell'Istruzione degno di questo nome.
Il rapporto Fiat - Stato è stato, ed è, mitizzato al punto tale che qualunque idiota che incontri per strada si sente in dovere di sparare la sua verità. La voce del popolo racconta che la Fiat ha preso i soldi e non ha mai restituito nulla. Una tale visione miope e superficiale può fare presa solo in una nazione dove prevale l'invidia sociale e nessuno ha il coraggio di approfondire la conoscenza. Il patto Fiat - Stato è stato di reciproca convenienza. Lo Stato Italiano cercava di salvaguardare l'occupazione e la Fiat, per anni, ha bloccato quelle ristrutturazioni interne necessarie per guadagnare competitività. A conti fatti il rapporto Stato - Fiat ha creato un equilibrio contrario ad ogni logica di mercato, che tra l'altro ha pesato sulla competitività del nostro paese e ha prodotto dei benefici solo nel breve periodo.
Questo Stato che protegge i grandi gruppi è una costante della storia italiana, e fanno sorridere le grida "liberiste" di Tremonti. Che dire della multa per Rete4 che paghiamo noi contribuenti? O dell'operazione finanziaria costruita per salvare la sacra italianità di Alitalia? Non sono anche quelli aiutini del pubblico per il privato?
La cronaca di quest'ultima settimana si è concentrata sul contratto proposto da Marchionne alle rappresentanze sindacali di Pomigliano. Prima di esprimere un giudizio sui termini dell'accordo credo che sia doveroso approfondire il contesto in cui ci muoviamo. Marchionne non sta facendo le bizze perché è un "padrone egoista", ma sta solo mettendo in luce una triste verità con cui dovremo fare presto i conti. Per anni ci siamo illusi pensando che la manifattura italiana potesse sopravvivere perché, nonostante il costo del lavoro fosse più alto rispetto ai paesi emergenti, offriva comunque un livello di qualità superiore. Questa convinzione si sta rilevando una fesseria, e anno dopo anno si sta sempre più riducendo il gap tra la qualità dei prodotti esteri e i nostri. Detto questo è ovvio che la manifattura italiana potrà avere un futuro solo se entreremo in competizione con le condizioni salariali offerte dai paesi emergenti. Ma questa situazione di contesto conduce ad un impoverimento della classe operaia italiana, che si vede costretta a rinunciare alle conquiste economiche e sociali, o almeno deve ridimensionare le sue pretese.
Il vero verdetto che emerge da Pomigliano non sta nel tentativo di estendere questo modello ad altre realtà produttive, come immagina l'ex socialista Sacconi (Ministro del Welfare). Si tratta invece di immaginare cosa dovranno fare gli italiani nel futuro. Vogliamo concentrarci su una manifattura che propone condizioni di mercato inaccettabili? Vogliamo mantenere la tradizione della fabbrica che dà lavoro a nonni, padri e figli, ma che per sopravvivere offre condizioni peggiori ai figli rispetto a quelle che sopportavano i padri? Se la manifattura non ha futuro dobbiamo avere chiaro in testa un concetto: o investiamo nell'istruzione e nella ricerca per formare il futuro del terziario avanzato (e perché no magari anche del secondario), o dovremo rassegnarci ad una realtà in cui crescerà lo squilibrio sociale interno al paese. O ci incamminiamo verso il futuro, o blocchiamo la scala sociale e cristallizziamo la realtà in cui viviamo. Forse basterebbe avere un Ministro dell'Istruzione degno di questo nome.
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