Il dibattito sul nucleare mi lascia allibito per le logiche dominanti nei discorsi di ambientalisti e nuclearisti. Il Ministro Prestigiacomo ha definito "sciacalli" coloro che promuovono iniziative antinucleari a seguito dei tragici fatti di Fukushima. La cosa mi lascia perplesso, cosa dire allora di coloro che, per esperienza diretta (ma non sempre!), partono dalle stragi del sabato sera per promuovere meritorie campagne contro l'abuso di alcolici e per istruire alla guida sicura? Sciacalli pure quelli? La famigerata emotività non è un sentimento da ripudiare con sdegno snob e non può essere catalogata come male assoluto. L'uomo è una raffinata combinazione di istinto e ragione, senza una delle due saremmo animali o automi.
Piuttosto preme constatare come il dibattito sul nucleare si stia trasformando in una riproposizione del processo di Biscardi. I fondamentalisti del nucleare, giornalisti convinti di essere le uniche menti illuminate del paese (a proposito segnalo un temino di
Panebianco) e politici impreparati (qui l'elenco sarebbe lunghissimo), a dire che gli ambientalisti sono una massa di rozzi, emotivi, avversi ad ogni forma di progresso. Gli ambientalisti fanatici (non tutti) rinfacciano agli altri di essere dei criminali che danneggiano l'umanità per intascare qualche beneficio economico. Così non si risolve nulla! Per quel che mi riguarda non ho tendenze luddiste, ma quando lessi "Abissi d'acciaio" (I. Asimov) parteggiavo per i medievalisti. E' per queste ragioni che trovo miope e patetico il tentativo di risolvere una questione complessa attraverso l'etichettatura e la denigrazione della controparte. Servono ben altre riflessioni.
1) Panebianco fa bene a ricordare che senza alcuna assunzione di rischi non c'è progresso, ma partendo da una simile constatazione trovo ardito il passaggio finale in cui l'antinuclearista è definito come se fosse una persona irrazionale che pretende l'impossibile (ossia l'eleminazione del rischio) e perciò rinuncia a vivere. Mi spiace per l'autore, ma la sua ipotesi iniziale non implica la sua conclusione finale.
La storia è fatta di scelte, ovvero di momenti in cui si è deciso di correre dei rischi e momenti in cui si è invece arrivati alla decisione opposta. I rischi non possono essere banalizzati e omologati: bisogna ricordare le diversità. Ogni individuo ha la sua percezione della realtà e la sua propensione al rischio. Ciascuna persona ha una sua, personalissima e insindacabile, soglia di tolleranza al rischio, ha anche una sua capacità interpretativa e arriverà ad una conclusione finale unica e rispettabile (nuclare sì, nucleare no). Negare questo diritto implica sostenere che dovremmo essere governati da un'èlite illuminata che sceglie per noi cosa è giusto, cosa è sbaglato, cosa è troppo rischioso, ecc..
Se non voglio il nucleare non voglio sentirmi dire che sono una persona disinformata che rinuncia a vivere. Semplicemente non reputo conveniente il rapporto rischi / benefici offerto da questa tecnologia e, magari, ho fiducia in attività che qualche nuclearista giudica sconvenienti. La valutazione resta personale e non può tener conto solo di fattori economici!
2) Il nucleare, ma in generale il dramma del Giappone solleva il tema importantissimo (ma ahimè dimenticato) del rapporto scienza - natura. Ho ripensato ad un film mostratomi da un prete durante le scuole medie e dalla mia professoressa di filosofia del liceo. Il mini film si chiama "Non avrai altro Dio al di fuori di me" (Kieslowski). La storia è semplice. Un bambino vuole andare a pattinare sul laghetto ghiacciato e chiede a suo padre il permesso. Il padre (ingegnere come me!) prepara un algoritmo, raccoglie i dati ambientali e, con l'ausilio di un pc, esegue un calcolo per rispondere alla seguente domanda: il ghiaccio è nelle condizioni di reggere il pattinatore? La risposta è affermativa. Il padre per completare l'opera va a testare il ghiaccio e non riscontra problemi. Il giorno dopo il figlio va a pattinare, ma dopo poco si sentono le sirene. Il ghiaccio non ha retto e il povero bambino è affogato. Il colpevole è un barbone che, per scaldarsi, ha acceso un fuoco vicino al lago.
Racconto questo solo per dire che l'uomo di scienza sa costruire dei modelli complessi, e spesso si perde in atteggiamenti narcisistici (ah come sono bravo!), finendo così per dimenticare che ci può sempre essere una variabile impazzita, qualcosa che sfugge al modello.
Davanti al film ci sono tre risposte.
La tentazione di alcuni è quella di dire che tutto il lavoro scientifico è da buttare, ma il modello non era completamente sbagliato: l'errore è stato quello di non comprenderne i limiti.
Partendo da questa considerazione c'è la risposta dei fanatici del trials & errors, capeggiati da
Chicco Testa (leggere l'articolo di oggi sul Corriere). Si riconosce che il modello era incompleto ed è stato commesso qualche errore (si è sottovalutata qualche variabile), ma la risposta è quella di costruire un nuovo modello, ancora più preciso, capace di prevedere con certezze le mosse del barbone, per prevenire questo rischio. Tutto nell'attesa del prossimo cigno nero.
La mia posizione sta nel mezzo. Bisogna prendere atto dei nostri limiti per capire che non si può applicare la logica del "trials & errors" in ogni disciplina (se il postino sbaglia casella postale è una cosa, se salta il reattore un'altra) e non si può spacciare per certezza qualcosa che presenta una natura aleatoria, sfuggevole alla nostra ragione. Non voglio sminuire la figura dello scienziato, ma ribadire che l'arroganza della ragione è un atteggiamento fuorviante, da cui bisogna stare alla larga. Sono sicuro che i veri scienziati non si sentiranno offesi.